Dipartimento di Giurisprudenza

Estudio General y Universidad Primaria Turritana A.D. 1632
Università degli Studi di Sassari

Vincenzo Manzini

Professore di Diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza

Compì gli studi universitari a Padova, dove conseguì la laurea in giurisprudenza (1895). Ottenuta la libera docenza in Diritto penale, divenne prima professore straordinario (1898) e poi ordinario (1902) di Diritto e procedura penale nelle Università di Ferrara, Sassari, Siena, Torino e Pavia, e infine Padova (1920), dove tenne una pluralità d’insegnamenti - tra i quali, oltre al Diritto e alla procedura penale, Storia del diritto italiano e Legislazione in materia di lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza (della quale fu altresì preside: 1931-33), e Diritto militare a Scienze politiche - sino alla collocazione a riposo per limiti d’età (1942) col titolo di emerito. Interruppe un solo anno il magistero patavino nel 1938, per ricoprire l’insegnamento della prima cattedra italiana di Procedura penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma. Esercitò la professione di avvocato, conservando l’iscrizione all’albo professionale di Padova, sino alla scomparsa. Componente della commissione per la riforma dei codici penali militari, fu incaricato (1926) dal guardasigilli Alfredo Rocco, senza assistenza di commissione di sorta, della compilazione del progetto del codice di procedura penale, in vigore dal 1930 al 1988. Nell’estate del 1927, insieme con Ugo Aloisi, lavorò al progetto, poi rivisto «minutamente» dal ministro (Trattato di diritto processuale penale italiano, I, Torino 1931, p. 96 nt. 2). Fu quindi messo a disposizione come professore (1928) per partecipare ai lavori della commissione di riforma del codice penale, che fu promulgato nel 1930 ed è tuttora in vigore. Manzini fu esponente di spicco della scienza penalistica italiana della prima metà del Novecento, essendosi proposto con originalità sincretistica come artefice del metodo giuridico-positivo o tecnico-giuridico (fondato con la famosa prolusione sassarese di Arturo Rocco), del quale fu definito «sommo sacerdote» (Calvi). Metodo esaltante la centralità esclusiva del sistema legale dei precetti e delle sanzioni, quale unico orizzonte speculativo della riflessione giuridica sui crimini e sulle pene, invero disinteressata a proiettarsi oltre il tema della formazione e della applicazione dei comandi legislativi. Sin dalla denunzia d’inizio secolo (La crisi presente del dir. pen. Discorso inaugurale per l’apertura dell’a.a. 1899-1900 nell’Univ. di Ferrara, ora in Scelta di scritti minori, Torino 1959; La concezione giuridico-positiva del dir. pen., in Riv. pen., 33 [1907], p. 393-407) della necessità del superamento della contesa dottrinale, divenuta asfittica che si perpetuava nell’ambito del dibattito tra Scuola classica e Scuola positiva, attesa l’indiscutibile unitarietà della scienza del diritto penale, Manzini intese definire l’approccio metodologico di contenuto tecnico-giuridico in negativo, evidenziando anzitutto la necessità di prendere le distanze dagli approdi delle scuole tradizionali, quella positiva e quella classica. Tuttavia, anche se in funzione di preservazione dell’autonomia della scienza penalistica, che è definita scienza normativa di norme imperative, dalle altre forme amministrative di tutela sociale, mercé un processo di differenziazione storica che ha veduto il diritto penale affrancarsi, in nome della preservazione dei principi di giustizia e libertà, dagli altri strumenti politici di difesa sociale, che interessano invece le scienze descrittive dei fenomeni sociali e storici, in Manzini mai viene messo in discussione il presupposto teorico della libertà del volere, quale autentico fondamento della legittimità giuridica della legislazione penale. Di conseguenza rimane centrale il principio della libera responsabilità individuale nel delinquere, avverso ogni forma di etero-determinismo e di responsabilità sociale, e quindi l’imputabilità soggettiva quale fondamento della punibilità; in ragione di ciò Manzini potrebbe reputarsi un sostenitore, ancorché inconsapevole, dei dettami della Scuola classica. Il precipitato normativo di tale collocazione nell’alveo ispiratore del liberalismo penale classico appare leggibile nei contenuti fondamentali dei codici penale e processuale degli anni Trenta, dei quali Manzini fu indiscutibile artefice intellettuale. Il principio di legalità era ed è architrave del sistema sanzionatorio, siccome l’imputabilità, sul presupposto psichico della capacità d’intendere e volere, era ed è fondamento della personalità della responsabilità penale; le pene, vincolate a limiti edittali mai draconiani ed a fondazione retributiva, erano e sono ancorate alla gravità obiettiva del reato, nell’alveo del modello teorico del diritto penale del fatto. Il sistema processuale penale, ancorché storicamente devoto al modello inquisitorio, risultava tecnicamente ben articolato e non scevro da aperture liberali. Giurista di regime ma sempre intellettualmente libero, non esitò a rieditare (La superstizione omicida e i sacrifici umani, con particolare riguardo alle accuse contro gli ebrei, Padova 1932),con rigore d’analisi storica e feconda riflessione giuridica, i propri studi criminalistici a proposito degli omicidi rituali nella storia del diritto penale, in strenua difesa dell’estraneità delle comunità ebraiche europee a tali pratiche, e tutto ciò proprio negli anni nei quali l’antisemitismo continentale andava strutturandosi ideologicamente anche attorno alle cosiddette accuse “di sangue”. Più in generale la dimensione storica occupava un posto di rilievo nella sua impostazione, nella convinzione che storia e dogmatica si integrassero e che la storia costituisse un elemento del metodo giuridico. In definitiva, l’impostazione metodologica ed i conseguenti risultati normativi appaiono rigidissimi, in nome della purezza tecnica dell’indagine scientifico-giuridica, che punta a separare e ad esaltare il profilo formale del diritto. Ciò rende Manzini, nonostante la lontananza dai postulati della Scuola positiva del diritto penale, uno dei massimi esponenti del giuspositivismo d’inizio Novecento. Questa collocazione rende altresì ragione dell’idiosincrasia, totalitaria e sprezzante, portata da Manzini, verso ogni tentazione per qualsivoglia riflessione filosofica attorno alla scienza del diritto penale, additata con sdegno come dannosa, inutile e distraente (Trattato di diritto penale italiano, I, Torino 1953, p. 7-12), essendo necessaria alla fondazione di quest’ultima una base di dati certi e precisi, rappresentata dai soli disposti normativi, gli unici in grado di garantire una riflessione autenticamente scientifica attorno al diritto. In ogni caso deve essere evidenziato come la miglior interpretazione che Manzini abbia offerto del proprio rigore tecnico-giuridico sia rappresentata dalla magnificenza dei suoi trattati, in particolare quello di diritto penale italiano, che, edito più volte per tutto il Novecento e tradotto in più lingue, costituisce uno strumento tecnico e professionale spesso tuttora indispensabile. Si comprendono, in tal senso, le parole pronunziate dal guardasigilli Michele De Pietro, in occasione delle solenni onoranze tributate a M. dall’Università di Padova, il 25 ottobre 1954: «Maestro, non ho avuto la fortuna di conoscerla personalmente. Ma io vivo ogni giorno in colloquio con lei. Non passa giorno infatti ch’io non consulti il suo mirabile trattato per ritrovarvi illuminazione pratica e sicura».

Tratto da Alberto Berardi, in Dizionario biografico dei giuristi italiani