Salvatore Satta
Professore di Diritto processuale civile
Salvatore Satta nasce a Nuoro il 9 agosto del 1902. Ultimo di sette fratelli, nato a circa diciotto anni di distanza dal primo, fu legato da affetto e devozione religiosa alla madre Valentina ed ebbe nel padre Salvatore, notaio, il primo maestro. Egli stesso racconta che i suoi primi compiti furono le copie degli atti che il padre faceva scrivere ai numerosi figli “poiché la macchina da scrivere non era ancora stata inventata”. A sedici anni si allontana da Nuoro per frequentare il liceo “Azuni”, dove incontra Giacomo Delitala e consegue la licenza liceale. L’iscrizione all’Università lo porta inizialmente lontano dalla Sardegna. Si iscrive, infatti, alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, dove tuttavia non porta a compimento il corso universitario: ritorna a Sassari, infatti per sostenere gli ultimi esami e conseguire la laurea nell’ottobre del 1924 con il massimo dei voti e la lode, discutendo con Lorenzo Mossa una tesi sulla revocatoria fallimentare. Nel 1925 si trasferisce a Milano, dove entra in contatto con Marco Tullio Zanzucchi, professore di Diritto processuale civile e ne frequenta lo studio, coniugando la prima esperienza professionale con l’impegno scientifico. Ma questa attività viene interrotta bruscamente per il sopraggiungere di una grave malattia polmonare che lo costringe al ricovero in un sanatorio presso Merano, dove scrive La Veranda (postumo, Milano 1981), opera prima che presenta al Premio Viareggio. Il manoscritto, pur apprezzato da Marino Moretti, non viene preso in considerazione dagli altri membri della giuria. Questa delusione lo riconduce a dedicarsi nuovamente agli studi giuridici e in particolare al diritto processuale civile. Il suo Maestro fu Zanzucchi ricordato da Satta con la frase “fu un professore, non fece il professore, cioè insegno con lo scritto, con la parola e con la vita”. Dopo alcuni lavori minori pubblicati sulla Rivista di diritto commerciale, pubblica una monografia, che ha segnato una svolta negli studi della materia, Contributo alla dottrina dell’arbitrato (Milano, 1931). Ricorda Carlo Furno nella ristampa (1969) della prima edizione, che questa opera è stata pubblicata “quando ormai la tirannia ha preso già da qualche tempo il posto della libertà, il fascismo ha superato le sue iniziali angustie, consolidato con sua struttura di regime autoritario”. Al riguardo, Furno sottolineava che Satta “non esita a capovolgere il rapporto fra ritualità e irritualità, e a fare dell’arbitrato libero la vera e originaria fattispecie arbitrale, la vera fonte degli arbitrati di ogni tipo”. Ecco allora che il riconoscimento, l’affermazione e, potrebbe dirsi, l’esaltazione dell’autonomia privata, della contrattualità dell’istituto arbitrale, altro non è, “nel linguaggio allusivo che si contrappone alla retorica degli statolatri”, se non “un inno alla libertà”. A questo messaggio di libertà Satta è stato fedele per la vita e, anche nelle opere dedicate essenzialmente agli studenti come il Diritto processuale civile (Padova 1948), ha avvertito che, “allo stesso modo come le parti possono transigere la controversia, così esse possono comprometterla in arbitri, cioè affidarne la decisione a giudici privati, scelti da esse o almeno scelti nel modo da esse conocordato”, aggiungendo che è questa “una manifestazione logica o addirittura primordiale dell’autonomia negoziale delle parti, che nessuna forza esterna può impedire per andare contro la realtà, e anzi cadere nell’assurdo”. Per la rilevanza scientifica accanto agli studi sull’arbitrato si collocano gli studi in materia di esecuzione forzata, nei quali Satta ha condotto “un’altra delle sue storiche battaglie, quella rivolta contro la pretesa di distinguere e dissociare diritto e azione”. Fondamentali sono La rivendita forzata (Milano 1933) e il successivo, L’Esecuzione forzata (in Trattato di diritto civile, dir. Filippo Vassalli, Torino 1950). Negli stessi anni Satta ferma la sua attenzione sulle procedure concorsuali, pubblicando le Istituzioni di diritto fallimentare (Roma 1943). La produzione scientifica degli anni successivi si arricchisce di tre opere particolarmente significative per la scienza processualistica italiana. La prima è rappresentata dai Soliloqui e Colloqui di un giurista (Padova 1968, Nuoro 2004), nella quale sono raccolti scritti, altrimenti pressochè introvabili, pubblicati in varie occasioni. La seconda è il Commentario del codice di procedura civile (4 Vol., Milano 1959-72) e, la terza, è costituita dai Quaderni del diritto e del processo (sei volumi editi nel periodo 1969-1973). Il pensiero scientifico si coglie in tutta la sua profondità di analisi alla luce dei numerosi scritti, noti e meno noti, pubblicati nelle riviste e raccolti nel volume Teoria e pratica del processo e poi nei Soliloqui e nei Quaderni. In tali opere si manifesta, infatti, con ancor maggiore immediatezza, il suo impegno civile e culturale, la testimonianza di uomo e scienziato. Qui vi è la storia di quelle che egli chiamava “le mie battaglie”. Qui si scopre il significato profondo del suo insegnamento. La sua guerra al concettualismo contro il “concetto che non prende e non comprende la realtà, ma che pretende di sostituirsi ad essa”, battaglia, quindi e soprattutto contro il formalismo giuridico. Particolare attenzione Satta ha dedicato alla funzione sia del giudice sia del processo. Per Satta aveva invocare l’imparzialità del giudice significa postulare il principio che il giudice non deve essere parte. Quanto alla funzione del processo, Satta rifacendosi all’antica definizione di Bulgaro, sottolineava il carattere drammatico diceva sono tre persone che lottano l’una contro l’altra, l’attore contro il convenuto, l’accusatore contro l’accusato; tutti poi contro il giudice perché ciascuno vuole piegarlo alla sua ragione. Questa ricostruzione del processo restituisce a tutti la certezza che il processo - così come noi lo concepiamo - è figlio della libertà: “dal travaglio della libertà, osserva Satta, sono nati tutti i principi sui quali il processo si regge, per i quali il processo è processo. Nullum crimen sine lege, nulla poena sine judicio, in dubio pro reo, audiatur et altera pars. Il diritto di difesa. Sono tutte espressioni giuridiche della libertà che le fa sacre e sante”. La carriera accademica di Satta si svolge nell’arco di più di un quarantennio. Nel 1934 ottiene l’incarico di insegnamento del Diritto processuale civile nell’Università di Camerino, che prosegue, dopo la vittoria concorsuale, sino al 1937, anno in cui viene chiamato a succedere a Francesco Carnelutti sulla cattedra di Diritto processuale civile dell’Università di Padova. Nell’a.a. 1938-39 viene chiamato all’Università di Genova, ormai residente nella città ligure è costretto dai bombardamenti a trasferirisi con la famigli in campagna, vicino a Fontanello. Le tragiche esperienze tragiche della stagione di guerra, che segna tutto il Paese e la cui testimonianza è affidata all’opera De Prufundis pubblicata nel 1948, alla conclusione del periodo in cui viene eletto pro-rettore dell’Università di Trieste per l’a.a.1945-46. Tornato a Genova, qui prosegue l’insegnamento sino agli anni Sessanta, quando, dopo un breve periodo (tra il 1958 e il 1960) in cui si alterna tra Genova e Roma, si trasferisce definitivamente alla Sapienza, titolare prima della cattedra di Diritto fallimentare (1958) e quindi, succedendo a Segni, della cattedra di Diritto processuale civile (1960), che ricopre sino all’a.a. 1973-74 per raggiunti limiti di età. Estrema testimonianza dell’umanità e delle doti letterarie di Satta rimane la pubblicazione postuma del romanzo Il giorno del giudizio (Padova 1977; Milano 1979) al quale, tradotto ormai in tutte le lingue, ha arriso un meritato e inatteso successo di critica e di lettori. Muore a Roma il 19 aprile del 1975.
Tratto da Carmine Punzi, “Salvatore Satta”, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX Secolo), II Vol, Bologna, 2013