Giorgio Marinucci
Professore di Diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza
Giorgio Marinucci (L'Aquila, 27.12.1934 - Roma, 19.4.2013) ha insegnato nelle Università di Sassari (1967-1971), Ferrara (1971-1973), Pavia (1973-1985) e Milano (1985 -2010) dove, dal 1990 al 1999 e dal 2003 al 2009, è stato direttore dell’Istituto di diritto e procedura penale. Il ricordo di Natalino Irti nella commemorazione all'Accademia dei Lincei: Sassari 1968. La Facoltà giuridica, antica di secoli, e illustre per tradizione di studi e di maestri, accoglieva un piccolo gruppo di giovani professori 'continentali', cioè venuti di là dal mare. Insieme con i più anziani colleghi 'insulari', formavano il consiglio di facoltà: nell'insieme dieci professori ordinari, come allora usava di denominarli “titolari di cattedra” - usciti dalle aspre teme concorsuali. I due professori abruzzesi, il penalista e il civilista, si incontrarono di persona in quella Facoltà e in quell'anno. L'università in cui avevamo vissuto la nostra giovinezza (o la prima stagione della nostra giovinezza) e incontrato i nostri Maestri - Giorgio, Giacomo Delitala, io, Emilio Betti - quell'Università era scossa da un vento impetuoso, che da oltre Oceano era penetrato e si allargava in Europa. A Sassari vi risuonava come un'eco, un brontolio lontano, che spesso prendeva toni di pittoresco provincialismo, ma pure destava dissensi e polemiche, e divideva gli animi, e costringeva i giovani professori 'continentali' a scegliere una strada, e a stare, per così dire, o da una parte o dall'altra. E i due professori abruzzesi, pur diversi in indole e formazione politica, si trovarono insieme dalla stessa parte: che fu la parte della serietà degli studi, del rigore metodologico, della severità del giudizio. La parte - se appena ci volgiamo indietro con lo sguardo - che sarebbe rimasta sconfitta negli anni successivi, e che oggi riceverebbe taccia di ottuso conservatorismo. La concorde visione degli studi anche nasceva dalla comune consapevolezza (allora venata di qualche ingenuità e illusione), che il diritto abbia una sua profonda e intima unità, e che tutte le discipline si ritrovino e raccolgano in cima al monte, in quella teoria generale che avevamo appreso dai nostri maestri e che sospingeva il penalista alla lettura di pagine bettiane e il civilista verso il grande libro di Delitala del 1930. Si discorreva tra noi o con altri colleghi (da Floriano D'Alessandro a Valerio Onida, da Franco Bassanini a Bernardo Santalucia), lungo gli ombrosi viali della città; si discuteva anche di 'norma' e di 'fattispecie', e insomma di quei concetti (non avevamo paura di chiamarli così) che in quel tempo ci apparivano necessari e indispensabili per il lavoro del giurista. Sassari, nelle consuetudini universitarie di quegli anni era soltanto la 'prima sede', il luogo del noviziato accademico, da cui si muoveva verso città più grandi e importanti. Allora non sapevamo (fu la malinconica scoperta di età matura) di lasciare a Sassari gli anni più lievi e fervidi della nostra vita. Così per Giorgio ci furono Ferrara, Pavia, Milano; per me, Parma, Torino, Roma. Il cammino degli studi era anche un cammino geografico: e dovunque si stringevano fruttuosi rapporti di colleganza o si gettavano - ma più radi e ardui - semi d'amicizia. In questo allontanarci e disperderci, il dialogo non si interruppe. Gli ultimi incontri - e qui la cronaca detta nostra amicizia si tinge di più acuta malinconia - li avemmo all'Accademia dei Lincei. L'alto prestigio, conseguito da Giorgio nella scienza europea del diritto penale e il personale desiderio di averlo a Roma nelle adunanze mensili, sospinsero un maestro del rango di Antonio Pagliaro a farsi promotore della cooptazione, e io gli fui accanto con ferma risolutezza: il consenso di altri consoci nazionali (da Giovanni Conso a Marcello Gallo, da Pietro Rescigno a Paolo Grossi) fu immediato e decisivo. Il 20 giugno 2012, nel dargli notizia telefonica del voto unanime non mi trattenni, né Giorgio si trattenne nel riceverla, dal rammentare il lungo cammino insieme percorso dal grigio edificio dell'Università sarda al Palazzo Corsini alla Lungara disegnato di là dal Tevere da Ferdinando Fuga. Fu ventura, e quasi simbolo d'una vita tutta dedicata agli studi, che all’Accademia dei Lincei Giorgio dedicasse le sue ore estreme. La fine, ancora una volta, segnò un ritorno al principio.